domenica 21 dicembre 2014

Negargari : le miniature iraniane

Saki - Reza Abbasi - Moraqqa’e Golshan -1609 -Golestan Palace

La miniatura in Iran si chiama negargari ed è un'arte molto antica. Difficile stabilire quando sia nata perché la maggior parte delle miniature è andata persa nel corso delle diverse guerre, quando con il fuoco veniva distrutto tutto. Basandosi su reperti di vasi e piatti ornati con le miniature si può affermare che esisteva già 2500 anni fa.
Nel periodo pre-islamico l’arte della miniatura veniva utilizzata per decorare le pareti dei palazzi dei re poi con l’avvento dell’islam si iniziarono a decorare le moschee e i libri sacri, dando origine ad un'arte che ora viene chiamata arte islamica Tazhib.
Ci sono due periodi importanti nella storia della miniatura.
Il primo è il periodo del Teimurian dove i mongoli che avevano occupato l’Iran,  incoraggiando  l’arte persiana, da cui erano particolarmente affascinati, fecero rinascere non solo la miniatura ma anche la musica e l’architettura.
Il secondo è il periodo Abbassian con il re Shah Abbas che spinse gli artisti famosi del paese a lavorare nel suo darbar (corte). Proprio nel castello si possono ammirare i capolavori del pittore più famoso del periodo, Reza Abbasi, gli artisti odierni si rifanno ancor oggi alle sue tecniche di pittura.
Nella miniatura persiana non esiste la prospettiva e non c'è luce fissa proveniente da un punto determinato, è invece molto importante il modo con cui si formano le linee e come vengono dati i colori che devono essere perfetti, spesso vivaci e vanno accostati in modo che diano piacere all'occhio di chi guarda.I miniaturisti usavano, e alcuni li usano tuttora, colori naturali che estraevano dalle piante o da pietre particolari, si usava molto anche l’oro e l’argento. Gli artisti costruivano pennelli e carte speciali.
Oggi le miniature si dividono in negargari (le figure) e tazhib (decorazione), tashir (figure che vengono dipinte utilizzando un solo colore), tarsi (si usano sulle pietre), gaomorg (figure di fiori, uccelli e disegni per realizzare i tappeti).

sabato 22 novembre 2014

La poesia araba di Nizar Qabbani

                                               Io ti amo quando piangi




                                                  Io ti amo quando piangi
                                          e amo il tuo viso annuvolato e triste.
                                          La tristezza ci unisce e ci divide
                                          senza che io sappia
                                          senza che tu sappia.
                                          Quelle lacrime che scorrono,
                                          io le amo
                                          e in loro amo l'autunno.
                                          Alcune donne hanno dei bei visi
                                          ma diventano piu' belli quando piangono..


Nizar Qabbani

domenica 2 novembre 2014

Musica su una nota sola


C’era una volta un uomo che viveva in un villaggio dell’Armenia, commerciava in tappeti con tutti gli abitanti del villaggio e di tutti i villaggi dei dintorni, ed aveva una certa reputazione locale di saggezza.
Conduceva una vita molto ritirata e viveva solo, finche un giorno decise di prendere moglie e sposò una ragazza del villaggio vicino, di parecchi anni più giovane.
La loro vita scorreva tranquilla: ogni sera l’uomo tornava dalla sua bottega, e mentre la moglie preparava la cena faceva un pò di musica per una mezz’ora.
La moglie ascoltava in silenzio, sorvegliando la zuppa o l’arrosto. A dire il vero, le sembrò presto che in quella musica ci fosse qualcosa di strano, e avrebbe voluto chiedere cosa fosse, ma a quel tempo le donne non facevano domande indiscrete ai loro mariti, il che è come dire che non ne facevano praticamente mai.
Una sera capì improvvisamente che cosa stava succedendo: suo marito suonava una nota sola, sempre la stessa!
La cosa le sembrò strana, ma non disse nulla per paura di fare domande sciocche, oltre che indiscrete.
Così passavano gli anni, finché, dopo diciannove anni di matrimonio, non poté più trattenersi e parlò così:
” Perdona la mia impertinenza, caro marito, ma è da tempo che vorrei rivolgerti una domanda. Ho sentito altre    persone suonare il tuo strumento ed anche altri strumenti. E’ vero che a volte si suonano note molto lunghe, ma non ho mai sentito nessuno suonare sempre la stessa nota per anni e anni, senza cambiare mai. Che specie di musica è mai questa? ”
L’ uomo la guardò a lungo in silenzio, quasi incredulo, poi sospirando e scuotendo la testa rispose:
” O donna, lunga di capelli e corta di comprendonio, mostro di curiosità e di sfrontatezza, grande in verità è la tua impudenza! Tuttavia sappi che coloro che suonano molte note fanno così perché cercano la loro nota, mentre io l’ho trovata molto tempo fa.”

lunedì 29 settembre 2014

Intrighi nell’harem di Solimano

Solimano e Rosselana in un quadro del '700
Quando un sultano moriva, tutte le sue concubine (eccetto la validé) e le sue figlie venivano rinchiuse nel “Palazzo delle lacrime” e qui, trascorrevano il resto della loro vita. Alcune di loro, riuscirono però ad esercitare sul sultano una tale influenza da cambiare la propria vita e il corso della storia. La prima e più famosa fu Roxelana o Rossellane, una schiava russa, di cui Solimano finì per invaghirsi pazzamente.
Roxelana diventò la seconda kadin quando diede alla luce un figlio maschio. La prima kadin si chiamava Rosa di Primavera e suo figlio Mustafa era destinato a succedere a Solimano, ma Roxelana, ambiziosa e assetata di potere, impegnò tutte le sue forze per sbarazzarsi di Rosa di Primavera, di suo figlio, e di tutti i loro alleati, affinché fosse uno dei suoi figli a diventare sultano. Un giorno, eludendo la sorveglianza degli eunuchi entrò nell’appartamento della rivale e la prese a pugni, ritrovandosi a sua volta, con il viso pieno di graffi. Nei giorni successivi si rifiutò di comparire davanti al sultano adducendo come scusa il volto sfigurato, fino a quando Solimano cedette e, per allontanare Rosa di Primavera dal palazzo imperiale, nominò Mustafa governatore della Manisa, dove, in base al protocollo, la madre lo avrebbe seguito. Giorno dopo giorno il legame di Roxelana con il sultano si rafforzava sempre più tanto che, Solimano per avere consigli ricorreva più a lei che ai propri visir.  In questo modo la donna  poteva giocare le sue carte e quando morì la validè, si ritrovò regina incontrastata di tutto l’harem. Per evitare possibili concorrenti, faceva sposare le schiave più belle e giovani e riuscì anche a convincere Solimano a sposarla, cosa niente affatto semplice dato che dal tempo di Maometto i matrimoni dei sultani erano cessati ed era stato istituito l’harem imperiale, con schiave di varie nazionalità, allo scopo di evitare che la moglie ufficiale di un sultano favorisse la propria famiglia con onori e privilegi. Il matrimonio tra Solimano e Roxelana fu celebrato con un fasto mai visto. La città venne adornata con fiori e bandiere. Per le vie sfilò un corteo di duecento muli e duecento cammelli che portavano i doni inviati da tutte le province del regno, seguito da ottanta eunuchi bianchi e ottanta neri, anche questi doni per la nuova sovrana. I festeggiamenti durarono una settimana, protraendosi fino a notte, in una città illuminata dalla luce di migliaia di lanterne. L’obbiettivo principale di Roxelana era quello di far diventare suo figlio Selim erede di Solimano, ma vi erano ancora due seri ostacoli da superare. Il primo era rappresentato da  Mustafa, primogenito del sultano molto amato da tutti ed il secondo era il Gran Visir Ibrahim che faceva di tutto per proteggere Rosa di Primavera e se stesso. Solimano considerava Ibrahim un fratello, lo aveva ricoperto di onori, ricchezze e gli aveva dato in sposa la sua stessa sorella, ma il Gran Visir aveva un punto debole: la vanità. Uomo di bassi natali, in poco tempo aveva ottenuto la carica di Gran Visir, e aveva accumulato enormi ricchezze, abbagliato da tanta fortuna non esitava a definirsi l’uomo più potente dell’impero, attribuendosi dopo la conquista di Baghdad il titolo di sultano dell’armata. Roxelana sostenuta da coloro che lo invidiavano organizzò una campagna denigratoria nei suoi confronti fino a convincere Solimano che Ibrahim costituiva un pericolo per il suo potere. Ibrahim fu condannato a morte e  strangolato con una corda di seta rossa, dagli schiavi sordomuti, addetti alle esecuzioni dei personaggi di alto rango. Ottenuta la sua prima vittoria, Roxelana fece eleggere Gran Visir un uomo fedele a lei e con il suo aiuto riuscì a stringere alleanze con gli uomini più ricchi e potenti di tutto l’impero. Conquistò molta popolarità facendo costruire moschee, bagni, biblioteche, un ospedale, fontane, alberghi gratuiti per i pellegrini. Ora rimaneva solo da eliminare Mustafa e l’occasione si presentò quando l’impero entrò in guerra con la Persia. Roxelana fece arrivare a Solimano una lettera in cui Mustafà chiedeva aiuto allo shah di Persia per detronizzare il padre e prendere il suo posto. La lettera era falsa, ma a Mustafa non fu mai data la possibilità di dimostrarlo. Solimano in preda ad una violenta collera convocò il figlio nella propria tenda e accusandolo di tradimento lo fece strangolare dai sordomuti con una corda di seta. Roxelana riuscì così a raggiungere il suo scopo, ma morì prima di diventare validè e di vedere suo figlio Selim succedere al padre Solimano nel 1566.

venerdì 5 settembre 2014

Proverbio arabo

the art of Feeroozeh Golmohammadi

                      Trattate i complimenti che vi fanno come profumi:
                               odorateli ma non inghiottiteli  

                 

lunedì 18 agosto 2014

Perché gli arabi scrivono da destra a sinistra?


L’arabo, all'origine, era solo uno dei tanti dialetti semitici della penisola arabica. Oggi è la lingua nativa di oltre 250 milioni di persone sparse tra il Marocco ad Occidente e l’Iraq ad Oriente. L'arabo si scrive e si legge da destra a sinistra. Questo comporta che i libri siano rilegati a destra, e quindi sfogliati al contrario rispetto a quelli a cui siamo abituati. La scrittura è solo corsiva e non esistono le maiuscole. Alla fine della riga le parole arabe non si dividono mai, ma le loro lettere si stringono o si allargano in modo da far entrare nello spazio dato la parola al completo.
L’attuale alfabeto della lingua araba è di origine aramaica. I primi testi conosciuti in aramaico risalgono al IX sec. a. C.: questa lingua era originaria della Siria, ma già all’ inizio del I millennio a. C. si diffuse in Mesopotamia e in seguito in Palestina.
L’alfabeto aramaico, base di molte lingue occidentali ed orientali, deriva a sua volta dalla forma più antica dell’alfabeto dei Fenici i quali inventarono l’ alfabeto, verso la fine del II millennio a. C. All’inizio essi disponevano le lettere come una specie di serpentina, inserendole da destra a sinistra e senza interruzione, ripartivano da sinistra a destra e via di seguito. Questo tipo di scrittura che è detta bustrofedica, non ha una direzione "fissa" ma procede con un andamento che ricorda quello dei solchi tracciati dall'aratro in un campo.
In seguito si cominciò a scrivere o da sinistra a destra (scrittura destrorsa) o da destra a sinistra (sinistrorsa), tralasciando il metodo fenicio bustrofedico.
A partire dall’ XI sec. a. C. prevalse tra i Fenici la scrittura sinistrorsa, che nel tempo venne impiegata per l’arabo, l’ebraico e per il neoaramaico, lingua in uso in alcune comunità cristiane e giudaiche originarie della Mesopotamia e delle sue zone confinanti. Le culture semitiche dell’ Etiopia e dell' Eritrea preferirono la scrittura destrorsa, come in Grecia, dove nacque l’ Occidente. La lingua araba ha iniziato a diffondersi dopo la scrittura del Corano a partire dal VII sec. ed oggi è particolarmente rispettata in quanto rappresentante la lingua del testo sacro. Per la religione islamica ogni azione deve iniziare con la destra, che rappresenta il bene ed il giusto, mentre la sinistra rappresenta il male, inoltre  la parola scritta è molto importante poiché la religione vieta qualsiasi rappresentazione iconografica della divinità, questo fa sì che la scrittura diventi l’unico mezzo per professare il verbo di Maometto. La calligrafia ha un ruolo molto importante nella cultura araba e viene considerata una vera e propria espressione artistica e religiosa.Tuttavia, mentre la scrittura araba decorre da destra a sinistra, i numeri decorrono in senso inverso, da sinistra a destra.


domenica 3 agosto 2014

La poesia palestinese di: Samih al Qasim

Labbra tagliate




                                                 Avrei voluto narrarvi
                                                 la storia di un usignolo morto
                                                 avrei voluto narrarvi
                                                 una storia…
                                                 ma mi hanno tagliato le labbra!

Samih al Qasim

venerdì 18 luglio 2014

Il significato del nome nella tradizione islamica


Nella società araba tradizionale ciascun individuo è distinto da un insieme di qualifiche che determinano molto precisamente la sua identità. Il "nome proprio", ricevuto alla nascita, non è che il primo degli elementi costitutivi del suo nome. Questi elementi, che possono essere molto numerosi,  sono:
• Il nome proprio (ism), o almeno ciò che oggi viene chiamato così. E' la sola denominazione dell'identità intima dell'individuo; per esempio: 'Alî, Fâtimah.
• Il nome di paternità (kunya): composto dalla parola abû (padre) o umm (madre) seguito dal nome del primogenito; per esempio: Abû-l-Hasan (il padre di Hasan), Umm Salama (la madre di Salama). Il nome di una figlia è menzionato solo raramente nella kunya; per esempio Abû Lubâba (il padre di Lubâba).
• Il nome di filiazione (nisba), indicante l'appartenenza tribale o il luogo di origine, di soggiorno o di decesso (città, regione, paese); per esempio: at-Tirmidhî (originario della città di Tirmidh). Una stessa persona può avere più di una nisba, per esempio: al-Qushayrî an-Nîsâbûrî (della tribù di Qushayr e della città di Nishapûr).
• Il soprannome (laqab), che può essere onorifico, legato alla religione o al potere (es.: 'Imâd ad-Dîn = il Pilastro della Religione). L'Islam vieta di imporre nomi o soprannomi peggiorativi, empi o ridicoli.
A questi elementi si può ancora aggiungere eventualmente la designazione del rito religioso, per esempio: al-Mâlikî (che segue la scuola giuridica malikita); oppure l'indicazione del mestiere esercitato; per es.: Farîd ad-Dîn 'Attâr (= il profumiere).
Ricordiamo che il nome completo del Messaggero di Allah è: Abû-l-Qâsim (kunya) Muhammad (ism) ibn 'Abd-Allah ibn 'Abd al-Muttalib (nasab) al-Hâshimî (nisba).
Il fatto di portare una kunya è visto come un segno di onorabilità, di rispetto o di affetto. Chiamare una donna con la sua kunya, piuttosto che col nome proprio, significa rispettare la sua intimità, onorandola al tempo stesso in quanto madre. 
Purtroppo, oggi il nome di filiazione (nasab) e il nome di paternità (kunya) sono sempre meno utilizzati, anche negli stessi paesi arabi. L'uso di un semplice nome proprio seguito dal cognome, si va via via generalizzando negli "stati moderni", nel tentativo di uniformare gli individui.
Un'altra usanza copiata dall'occidente consiste nel prendere, da parte della sposa, il cognome del marito. Nell'Islam la donna conserva la sua identità di nascita per tutta la vita, sia per preservare le sue origini che per salvaguardare il suo statuto personale.
E' a questo titolo che l'adozione (tabanni) non è riconosciuta dall'Islam. L'orfano gode nel diritto islamico di una protezione particolare, tuttavia non è equiparato al figlio biologico, e non gli viene imposto il nome della famiglia che lo accoglie, perché questo cancellerebbe le sue origini, e denaturerebbe la sua identità.

tratto da: http://www.islamicbulletin.org/italian/ebooks/nomi_arabi.pdf

venerdì 27 giugno 2014

Il Ramadan e l'harem



Alle grandi festività l'harem partecipava in due modi: aiutando nei preparativi e assistendovi da palchi appositamente allestiti. V'erano però, lungo il corso dell'anno, anche altre cerimonie ed altre festività, soprattutto religiose, cui le donne dell'harem partecipavano. Ad esempio la preghiera del venerdì. A mezzogiorno si formava un corteo pubblico, che accompagnava il sultano alla moschea. Durante il mese di Ramadàn i cerimoniali religiosi erano maggiormente osservati. La prima notte del mese sacro trascorreva nella preghiera. fino a che il cannone annunciava l'inizio del digiuno. A mezzogiorno un teologo teneva un sermone in ogni nucleo dell'harem. La sera era nuovamente lo sparo del cannone che segnava la rottura del digiuno. Limonate, sciroppi, datteri e miele, erano i cibi che si assumevano prima di dare inizio al pasto vero e proprio. A questo punto il sultano invitava dignitari e ospiti di gran lignaggio, ed era compito della validè sultàn e delle donne dell'harem ospitare le spose dei dignitari. Dopo la preghiera le donne dell'harem e le loro ospiti potevano essere intrattenute con canti e musiche. Per la festa di fine Ramadàn, il sultano visitava l'harem, distribuendo doni a tutti e cercando, in particolare, di appianare lagnanze e eventuali questioni. Era d'obbligo per il sultano visitare la validè e le donne dell'harem durante la festività per la "notte del destino" (quando il profeta Maometto ricevette la prima rivelazione del Corano); per la "nascita del Profeta"; per la "notte dell'Ascesa" (durante la quale il Profeta compì un viaggio mistico); e per la "festa del sacrificio" che rammenta il sacrificio di Abramo. In queste occasioni si regalavano soprattutto oggetti e monili in filigrana d'argento e d'oro.

                             
                                               Ramadan Mubarak


lunedì 16 giugno 2014

La poesia palestinese di : Mahmoud Darwish

Pensa agli altri



Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.
Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.
Mentre paghi la bolletta dell'acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.
Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.
Mentre dormi contando i pianeti, pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.
Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.

Mahmoud Darwish

giovedì 29 maggio 2014

Proverbio libanese



                              Se vuoi un raccolto per un anno, pianta il grano; 
                              se vuoi un raccolto di dieci anni, pianta alberi; 
                              se vuoi un raccolto per cento anni, educa un popolo.

ill: An Arab School – The School Of Sultan Hassan - FredericK Goodall ( 1822-1904, English)

mercoledì 7 maggio 2014

Harem: la musica e la danza




Nel Medioevo donne di “straordinaria bellezza” venivano acquistate al mercato degli schiavi o rapite come bottino di guerra, per essere portate nei palazzi di uomini potenti, califfi, sultani e ricchi mercanti. Alcune di queste ragazze venivano impiegate per i lavori domestici, altre  più fortunate, erano affidate dal padrone dell’harem, ad esperti maestri in modo che potessero imparare a cantare,  a ballare, a recitare poesie e a suonare strumenti musicali. Nel Palazzo vi era la sala della musica, dove solo gli insegnanti e le studentesse potevano avervi accesso, e naturalmente le persone addette alle pulizie. Nell'harem, da sempre, avevano luogo piccoli concerti, serate di canto e spettacoli teatrali tipicamente turchi. Sopratutto apprezzata era la danza. Le schiave-ballerine più esperte godevano di maggiore libertà, potevano perfino recarsi a studiare in casa dei più famosi maestri, accompagnate da due donne anziane ed erano ammesse a competere con musicisti e poeti nelle grandi feste organizzate nei palazzi che duravano anche tutta la notte. Il corpo di ballo era composto da dieci danzatrici più una capodanzatrice e un'apprendista. In particolare eseguivano la danza kocek (che nel resto del paese era eseguita invece da giovanotti vestiti da donna), caratterizzata da sonagli d'ottone alle dita, o da nacchere; oppure la tavsan oyunu (danza del coniglio). Per ogni tipo di danza le ballerine vestivano costumi tradizionali, caratteristici di ciascuna. L’accompagnamento musicale veniva effettuato con strumenti musicali come il liuto ('ud), il violino, il tamburello (duff), le nacchere (çalpâre), il flauto (ney) , e una sorta di liuto chiamato tambur. Quando, con la fine dell’Impero Ottomano nel 1909, l’harem fu sciolto, le donne uscirono dalla loro gabbia dorata. Qualcuna  riuscì a  ritornare dalla sua famiglia, altre impiegarono le arti imparate nell’ harem per guadagnarsi la vita.

martedì 15 aprile 2014

Abbigliamento nel mondo arabo tra passato e presente: kefiah


La kefiah è il tradizionale copricapo arabo, diffuso in tutto il Medio Oriente. E’ costituito da un telo di lana, cotone o seta che, piegato a triangolo, viene avvolto attorno al capo in vari stili oppure viene indossato mettendolo a triangolo sulla testa, con due punte cadenti sulle spalle e la terza che scende a proteggere la nuca e il collo. La kefiah  può essere fermata sul capo da una doppia banda nera ( una sorta di “otto” piegato su se stesso per formare un doppio cerchio) il cui nome è iqal. Sotto la kefiah alcuni uomini portano un taqiyah  o tagiyah, una sorta di cappello da preghiera musulmano indossato per lasciar traspirare meglio il capo (a volte infatti è traforato). Le kefiah palestinesi, in genere, sono a scacchi neri e bianchi, ma esistono anche quelle rosse e bianche, chiamate shemag, indossate soprattutto dai giordani, e quelle tutte bianche chiamate ghutrah utilizzate nella Penisola Arabica. 
La kefiah è conosciuta anche con altri nomi  come yashmag, mashadad e hattah.
Questo copricapo tradizionale è spesso indossato nei paesi occidentali come segno di solidarietà verso il popolo palestinese.
Il significato storico-politico che si nasconde dietro quest'indumento risale ai primi anni del Novecento. La kefiah era usata soprattutto dai contadini palestinesi per ripararsi dal sole e dal vento e si contrapponeva ad un altro tipo di copricapo, il fez, usato, invece, nelle aree urbane e quindi dalle persone più facoltose. Ma il fez era anche il simbolo dell'Impero Ottomano che aveva governato su tutte le terre attorno al Mediterraneo dal 1299 fino al 1923. Così negli anni Trenta per contrapporsi all'avanzata dell'Europa in Palestina,perchè dopo la Prima Guerra Mondiale ne venne dichiarato il protettorato inglese, i palestinesi incominciarono ad indossare la kefiah come simbolo del patriottismo palestinese.


martedì 1 aprile 2014

Ignoranza e conoscenza


Il discepolo di un Sufi si vantava delle proprie cognizioni.
Ma un giorno fu trovato impreparato, non riuscendo ad affrontare una certa questione.
Allora si recò dal suo maestro, per chiedere consiglio.
Come molti Sufi, questo saggio leggeva nel pensiero e disse:”So già cosa ti è successo. Chi è causa del suo mal, pianga se stesso!”
“Che vuoi dire?”, replicò il discepolo.
“Mi spiegherò meglio.
Come pensi sia riuscito ad attingere le mie conoscenze?
“Poiché non ci arriveresti, te lo dirò io. Non ho fatto altro che chiedere istruzioni, ogni volta che ignoravo qualcosa.
“Se tu fingi di conoscere certe nozioni, come potrai mai possederle?
“D’ora in poi dà retta a me: ciò che non sai, ammetti di non saperlo. Solo in questo consiste la vera conoscenza.”

tratto da: "101 storie sufi"

Ill: Meeting of Sufi Saints. Mughal painting, circa 1645 AD. National Museum


giovedì 6 marzo 2014

La poesia siriana di Maram al- Masri


Le donne come me 

Le donne come me
non sanno parlare;
la parola le rimane di traverso in gola
come una lisca
che preferiscono inghiottire.
Le donne come me
sanno soltanto piangere
a lacrime restie
che improvvisamente
rompono e sgorgano
come una vena tagliata.
Le donne come me
sopportano gli schiaffi,
senza osare renderli.
Tremano di rabbia
e la reprimono.
Come leoni in gabbia,
le donne come me
sognano
di libertà..

Maram al- Masri ( (Latakia, 2 agosto 1962), è una poetessa e scrittrice siriana.





              auguri a tutte le donne

sabato 22 febbraio 2014

Marocco: folclore e misticismo


Benché il Marocco sia un paese musulmano, la sua storia inizia migliaia di anni prima dell'arrivo dell'Islam, un fatto che si riflette in determinate pratiche. Nei primi tempi dell'Islam, alcuni credenti, ai quali vivere secondo i dettami della religione non sembrava abbastanza, cercarono un rapporto più intimo con Dio. Molti di questi spiritualisti, chiamati Sufi, si riallacciarono così alle antiche pratiche dei berberi; esistono ancora dei Sufi in Marocco, soprattutto nel sud dove vivono in zawiya o confraternite sufi. I Sufi costituiscono una minoranza, ma certe pratiche mistiche o superstiziose sono diffuse presso la maggioranza dei marocchini. La credenza del malocchio è molto forte e spesso la gente porta al collo o appende all'ingresso di casa un amuleto detto " la mano di Fatima" o hamza. In alcune zone rurali del sud vengono praticati dei tatuaggi facciali che si ritiene tengano lontani gli spiriti maligni(jinns). Una di tali creature è Aisha Qandisha, una bella donna con zampe di capra che, secondo la credenza popolare, vive nei fiumi e nelle tubature. I bambini ne hanno paura ed è risaputo che alcuni uomini sono caduti vittime delle sue malìe. Esistono altre pratiche folcloristiche meno conosciute, ma non sono praticate nelle città, dove i marocchini moderni le condannerebbero come non islamiche. Nell'ambito della miriade di festival e di moussem, che si tengono durante l'anno,gli stranieri possono assistere o prendere parte a diverse tradizioni folcloristiche marocchine.

ill: “Mystical Dance” Hamida Madhani

mercoledì 12 febbraio 2014

La poesia araba di: Abu – al Qasim ash-Shabbi


O amore    أيّها الحب   

Amore, tu sei la causa profonda della mia melanconia,
dei miei pensieri e turbamenti, delle mie pene,
del mio tormento, delle lacrime, del mio soffrire,
del mio male, dello struggimento e della mia infelicità.
Amore, tu sei la ragione della mia esistenza:
della vita, della dignità, della fierezza.
Tu sei la mia fiaccola nelle tenebre del tempo.
Tu se il mio compagno, il conforto, la mia speranza.
 

أيها الحب، أنت سرّ بلائي، و همومي،و روعتي، و عنائي
و نحولي، و أدمعي، و عذابي، و سقامي، و لوعتي، و شقائي
أيها الحب، أنت سرّ وجودي، و حياتي، و عزتي، و إبائي
و شعاعي ما بين ديجور دهري، وأليفي، وقرّتي، ورجائي


giovedì 30 gennaio 2014

Proverbio arabo



                                           Buttate in mare un uomo fortunato 
                                       e tornerà a galla con un pesce in bocca.

ill: Reuven Rubin, Arab Fisherman, 1924

venerdì 10 gennaio 2014

Il kebab



Forse non tutti sanno che:
secondo la ricostruzione effettuata dall’History of World Food di Cambridge, la nascita del kebab (arabo كباب, kebāb cioè "carne arrostita") va fatta risalire a diversi secoli prima della venuta al mondo di Cristo, quando, in un Medio Oriente in cui il combustibile per il fuoco era piuttosto scarso, cucinare la carne dopo averla ridotta in piccoli pezzi si rivelava più conveniente e veloce. Aveva origine così il primo antenato del kebab, destinato a diventare doner (“doner kebab” significa "kebab che gira", con riferimento allo spiedo verticale rotante) solamente nell’Ottocento.
La leggenda ne attribuisce la paternità ad un cuoco turco, Iskender Efendi, nativo di Bursa, il quale decise, intorno al 1870, di cuocere la carne tenendola in verticale in modo tale che il grasso, colando dall’alto verso il basso, rendesse più morbido lo spiedino. Il primo a mettere in commercio il kebab ( in turco kebap) in qualità di cibo di asporto, fu invece, poco più di quaranta anni fa, Mehmet Aygun, un immigrato turco titolare di un ristorante nel quartiere multietnico di Kreuzberg a Berlino. Egli riuscì a coniugare la velocità tipica dei fast food con la tradizione turca. Secondo altri, invece, fu Kadir Numan a mettere per primo il kebab in una pita. Gestore di un ristorante nei pressi di una stazione, il signor Numan sfruttò la fame degli operai, che prendevano il treno ogni giorno, mettendo a loro disposizione uno spuntino in grado di fornire energia e che potesse essere trasportato con facilità sul posto di lavoro.

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